Adriano Olivetti nel Centro Culturale di Porta Pinciana a Roma
Adriano nel Centro Culturale di Porta Pinciana a Roma

A Ivrea, principale centro del Canavese, regione al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta, Camillo Olivetti (1868-1943) fonda nel 1908 la “Prima fabbrica italiana di macchine per scrivere”. D’origine ebraica, Camillo, laureato in ingegneria, è un imprenditore di prima generazione, genialmente autodidatta. Con la moglie Luisa Revel, valdese, forma una grande famiglia – avranno sei figli – che vive in un convento appartenuto ai francescani sul limitare della cittadina, alle pendici di Monte Navale.

La coppia educa i figli con principi severi ma libertari, e Adriano, il maggiore tra i maschi, nato nel 1901, già a tredici anni compie un’esperienza di fabbrica che così ricorderà:

Imparai ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina.

Al termine degli studi superiori, nella primavera del 1918, Adriano si arruola come volontario nel corpo degli alpini, anche se non fa in tempo a raggiungere il fronte.

Terminati gli obblighi di leva, si iscrive alla facoltà di Ingegneria a Torino. La città sta vivendo il periodo di occupazione delle fabbriche nella convulsa fase che segue la Grande Guerra:

Dal 1919 al 1924, nei lunghi anni del Politecnico, assistei allo svolgersi della tragedia del fallimento della rivoluzione socialista. Vedo ancora il grande corteo del 1° maggio 1922 a Torino: 200.000 persone. Sapevo che i tempi non erano ancora maturi, intuivo soprattutto che la complicazione dei problemi era tremenda e non vedevo nessuna voce levarsi a dominare con l’intelligenza la situazione e indicare una via perché il socialismo diventasse realtà.

È la Torino di Luigi Einaudi e di Giovanni Agnelli, di Gramsci e di Gobetti, ma la posizione politica di Adriano, condivisa con i fratelli Rosselli, è più vicina al socialismo empirico di Gaetano Salvemini. Nel 1924, dopo la laurea in ingegneria chimica, Adriano entra in fabbrica come apprendista operaio insieme all’amico di tutta la vita Gino Levi (che in seguito cambierà cognome in Martinoli).

L’anno successivo il padre lo manda negli Stati Uniti per compiere una sorta di grand tour tra le principali fabbriche americane.

Imparai la tecnica dell’organizzazione industriale, seppi capire che per trasferirla nel mio paese doveva essere adattata e trasformata.

Al ritorno il giovane Adriano fa parte, con Parri, Pertini e Carlo Rosselli, del gruppo di antifascisti che aiuta Filippo Turati a fuggire dall’Italia.

Sposa poi Paola Levi, sorella di Natalia Ginzburg e dell’amico Gino. Il matrimonio non durerà a lungo, ma la frequentazione dell’ambiente di Paola, quello descritto dalla stessa Ginzburg in Lessico famigliare, affina il senso estetico di Adriano e favorisce i suoi contatti col mondo culturale italiano.

Intanto la Olivetti si sta trasformando da impresa artigiana a industriale, e il passaggio generazionale tra Camillo e Adriano non sempre è indolore. Il figlio ricorderà, molti anni dopo, questo ammonimento paterno:

Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia.

Dal 1932 Adriano è direttore generale dell’azienda, apre un ufficio di pubblicità a Milano, si avvale di giovani architetti e designer razionalisti come Figini e Pollini, i BBPR, Nizzoli, Pintori, e chiama, nel 1938, un poeta-ingegnere, Leonardo Sinisgalli, a dirigerli.

Nasce così lo “stile Olivetti”: macchine per scrivere, arredi d’ufficio, un panorama della modernità nuovo per l’Italia che si coglie anche nella fabbrica di vetro d’Ivrea (Figini e Pollini, 1935), nei pionieristici servizi sociali (gli asili, le colonie estive, i trasporti) e si ritrova nelle macchine d’ufficio, nella grafica e nei negozi che diverranno gli ambasciatori di uno stile nuovo che, ancora oggi, contraddistingue il nome Olivetti nel mondo.

Attorno ad Adriano cominciano a radunarsi i migliori ingegni della sua generazione. La suggestione del New Deal americano e le risposte che si imponevano agli effetti della crisi del ’29 hanno un esito nel piano regolatore della Valle d’Aosta, promosso e coordinato da Olivetti tra il 1936 e il 1937, che diviene il primo esempio di pianificazione urbanistica in Italia.

Fiutando in anticipo la fine del fascismo, Adriano, con i suggerimenti di Bobi Bazlen, fonda nel 1942 le Nuove Edizioni Ivrea, col proposito di rinnovare la cultura italiana traducendo i più importanti testi di psicologia, economia, sociologia e delle scienze sociali in generale.

Nelle ambizioni di Olivetti la casa editrice vuole offrire testi teorici, di riflessione, insieme a opere più pratiche che contribuiscano ad aggiornare la cultura italiana in tempi di crocianesimo imperante. L’incalzare degli eventi bellici interrompe i programmi editoriali di un’iniziativa che, dopo la guerra, Adriano riprenderà col nome di Edizioni di Comunità.

Nel primi mesi del 1943 Olivetti compie alcuni viaggi in Svizzera prendendo contatto con gli Alleati, attraverso Ignazio Silone, per illustrare un piano di pace da lui redatto, ma dopo l’armistizio, accusato di intelligenza col nemico, è imprigionato dal governo Badoglio a Regina Coeli e solo qualche giorno dopo l’8 settembre riesce fortunosamente a tornare in libertà.

Nei giorni dell’occupazione tedesca Natalia Ginzburg lo incontra per le strade di Roma. Adriano l’avvisa che il marito Leone è stato arrestato e lei così lo ricorda in una celebre pagina di Lessico famigliare:

M’aiutò a fare le valigie, a vestire i bambini; e scappammo via, e me lo ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall’infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto; e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere per le stanze i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile, pietosa e paziente. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno.

Nel febbraio 1944 si rifugia in Svizzera dove finisce di scrivere, nella calma dell’Engadina, L’ordine politico delle Comunità, testo teorico che nasce come reazione alla tragedia della Seconda guerra mondiale, vissuta come trapasso di una civiltà e palingenesi di un mondo nuovo.

Preso atto del fallimento dell’ideologia socialista e della crisi del capitalismo, elabora una nuova idea di Stato basato sulla Comunità come nucleo fondante della società. La stesura del volume è discussa con Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, entrambi rifugiati in Svizzera. La prima edizione del libro (aprile 1945) ha come sottotitolo “Le garanzie di libertà in uno stato socialista”, la seconda (1946) “Dello stato secondo le leggi dello spirito” e la sovraccoperta recita con concisa esattezza:

Un piano organico di riforma della struttura dello Stato, inteso ad integrare i valori sociali del marxismo con quelli di cui è depositaria la civiltà cristiana, così da tutelare la libertà spirituale della persona.

Il concetto di Comunità, perno della riflessione e della proposta olivettiana, nasce dalle letture di Maritain e di Mounier, ma soprattutto come sistematizzazione teorica di ciò che Olivetti ha avviato, prima della guerra, a Ivrea e che di lì a poco riprenderà. Egli stesso lo ricorderà così:

Una Comunità né troppo grande né troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte, che il destino aveva realizzato in una parte del territorio stesso, in una singola industria.

Nel maggio 1945 può finalmente rientrare a Ivrea, dove la fabbrica, dopo la morte del padre Camillo nel 1943, è stata salvata da un gruppo di dirigenti coraggiosi, tra cui Giovanni Enriques e Gino Martinoli. Il primo discorso dopo la guerra ai lavoratori d’Ivrea è davvero drammatico e si conclude con queste parole:

Cosa faremo, cosa faremo? Tutto si riassume in un solo pensiero, in un solo insegnamento: saremo condotti da valori spirituali. Questi sono valori eterni, seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé senza che noi li ricerchiamo.

Dopo una sfortunata parentesi politica nell’ufficio studi del Psiup, e risolto qualche dissidio familiare, comincia, alla fine del 1946, la stagione migliore di Adriano e della Olivetti. Tra gli esiti più noti c’è la macchina per scrivere portatile Lettera 22 (1950) che diviene un vero e proprio oggetto di culto internazionale.

Nel 1952 una crisi di crescita è risolta da Olivetti con l’aumento della forza vendita anziché con i licenziamenti da molti suggeriti e, nello stesso anno, una mostra al MoMA di New York consacra l’azienda come esempio di design a livello mondiale ed è il punto d’avvio della più luminosa stagione del made in Italy.

Il numero delle iniziative di Adriano negli anni Cinquanta è tale che può essere solo sommariamente riassunto. Le sue attività si dividono tra fabbrica e Comunità in una sorta di laboratorio permanente dove le riflessioni teoriche si inverano nelle attività pratiche e, programmaticamente, non si fissano steccati tra azienda e attività intellettuale, tutte contribuendo alla costruzione di una nuova idea di società.

La crescita industriale passa attraverso una costante innovazione tecnologica e organizzativa che porterà la Olivetti a essere la prima azienda al mondo a produrre il computer mainframe Elea 9000 (1959); il gruppo di intellettuali (tra cui Franco Fortini, Paolo Volponi, Franco Ferrarotti, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti, Giorgio Soavi, Renzo Zorzi, Riccardo Musatti, Giovanni Giudici, Furio Colombo, Massimo Fichera, per citarne solo alcuni) che daranno vita al mito olivettiano; le fabbriche e i negozi progettati in Europa e negli Usa dai migliori architetti e designer italiani e internazionali; una nuova forma di comunicazione attraverso la grafica, i reportage fotografici, i film prodotti dall’azienda.

Nel campo più propriamente culturale molto importanti sono le riviste che Adriano pubblica e sostiene, segnando in certi casi la storia della grafica con innovative formule editoriali. Tra tutte «Comunità», con le bellissime inchieste che raccontano l’Italia degli anni Cinquanta, poi «Sele Arte» di Carlo Lodovico Ragghianti, «Zodiac», una rivista d’architettura di respiro internazionale, «L’Espresso», settimanale che inaugura il giornalismo d’opinione italiano.

Nel frattempo le Edizioni di Comunità pubblicano Maritain, Mounier, ma anche Galbraith, Hannah Arendt, Kierkegaard e la nuova sociologia americana, mentre il nucleo di interessi più vicini a Olivetti si ritrova in autori presenti nel catalogo con più titoli come Friedmann, Mumford, Picard, Albert Schweitzer, e in singoli libri come L’idea di una società cristiana (1948) di T.S. Eliot, Progettare per sopravvivere (1956) di Richard Neutra, La condizione operaia (1952) e altri libri di Simone Weil.

Assiduo e fondamentale è l’impegno nell’urbanistica, categoria primaria dell’azione politica territoriale, con la presidenza dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, e pioneristico anche nelle metodologie, è l’aiuto per il riscatto del Meridione d’Italia – l’esempio più noto è Matera – attraverso soprattutto l’azione del Cepas, la prima moderna scuola laica di servizi sociali in Italia, condotta da due donne: Angela Zucconi e Anna Maria Levi, sorella di Primo.

Nel 1955, a soli dieci anni dalla fine della guerra, viene inaugurata la fabbrica di Pozzuoli: le architetture di Cosenza e i giardini di Porcinai sono immortalati dalle foto di Cartier-Bresson, chiamato da Adriano per comunicare al mondo che una grande e moderna fabbrica è stata aperta nel Golfo di Napoli, in un Meridione che fino ad allora era sinonimo di miseria.

In quell’occasione Olivetti pronuncia uno dei suoi discorsi più ispirati. Ad ascoltarlo c’è Ottiero Ottieri, allora suo collaboratore, che così ricorderà in Donnarumma all’assalto quel momento:

Disse con la sua voce fredda e rapida: “Così di fronte al golfo più singolare al mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”.

Nessuno ne rise.

Abbiamo lasciato, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti”. Forse egli non immaginava quanto lo temessimo e insieme avessimo bisogno di nutrire fiducia in lui; necessità di saperlo diverso dal mondo che lo esprimeva, il mondo dei puri profitti, senza inconscio e senza stelle.

Accanto alle attività aziendali e culturali – stupisce, ma è quasi metodologica, la capacità di Olivetti di lavorare contemporaneamente su diversi fronti – la nascita (1947) e lo sviluppo del Movimento Comunità, da subito critico verso la partitocrazia della giovane Repubblica italiana, che porterà Adriano, dopo essere stato eletto sindaco di Ivrea nel 1956, a essere il solitario deputato nelle liste di Comunità nel 1958.

Il Movimento è soprattutto efficace a livello locale, nel Canavese, dove ha la sua base territoriale e dove nel 1954 nasce l’I-RUR (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale del Canavese): lo scopo è di promuovere lo sviluppo rurale delle valli del Canavese e, contemporaneamente, evitare l’inurbamento incontrollato della forza lavoro a Ivrea per il timore che, come stava avvenendo altrove in Italia, venisse distrutto il precario equilibrio tra città e campagna con enormi costi in termini sociali e urbanistici.

Quella di Comunità è una lotta politica condotta nel più completo isolamento, nell’Italia divisa tra Democrazia cristiana e i partiti marxisti, dove gravavano enormi sospetti verso un “padrone” spesso in contrasto con Confindustria, che gestiva l’azienda con la collaborazione dei Consigli di Gestione (smobilitati altrove dopo il 1948), che resero la Olivetti la prima azienda italiana a raggiungere il traguardo della settimana di 40 ore. Una fabbrica dove, accanto a operai e impiegati, lavoravano i primi psicologi, Cesare Musatti, Novara, Rozzi, e sociologi di fabbrica come Luciano Gallino.

L’ultimo anno della vita di Olivetti è tempestoso: dopo la sconfitta elettorale nel 1958 la sua posizione è messa in discussione all’interno dell’azienda, dove è accusato di destinare troppe risorse alla vocazione sociale.

Dopo un volontario esilio, ritorna rilanciando l’elettronica, acquistando la Underwood, la grande azienda americana di macchine per scrivere. Un azzardo, perché la società si rivelerà obsoleta dal punto di vista tecnologico. L’intenzione di Adriano è però di utilizzarne la grande rete commerciale per entrare nel mercato americano.

Propone poi ai famigliari un nuovo assetto societario con a capo una Fondazione, che prevede, tra l’altro, la partecipazione nell’azienda, insieme alla proprietà, dei lavoratori e delle università locali: è il culmine della riflessione sulla responsabilità e sul ruolo sociale dell’impresa e di chi la conduce.

La morte lo coglie all’improvviso, da solo, il 27 febbraio del 1960 su un treno diretto verso la Svizzera e interrompe una vita tutta protesa verso il futuro.

Il funerale ha luogo qualche giorno più tardi a Ivrea con 40.000 persone che seguono in silenzio il feretro, arrampicati sulle tribune montate in occasione del Carnevale. Per raccogliere e proseguire il suo impegno civile e le attività comunitarie all’insegna del simbolo della campana, due anni più tardi i collaboratori più stretti e la sua famiglia istituiscono la Fondazione Adriano Olivetti.

A pochi mesi dalla sua morte, Eugenio Montale scrisse parole che, lette oggi, hanno acquistato un valore più profondo:

Dai miei incontri con Adriano Olivetti – infrequenti ma non pochi durante trent’anni di amicizia – ho riportato sempre un senso di ammirazione per la lotta da lui evidentemente sostenuta contro la lonely crowd ch’egli sentiva intorno a sé e soprattutto in sé. Al di là delle sue attuazioni comunitarie, che io non saprei giudicare, Olivetti era per me l’esemplare di un uomo nuovo che dovrebbe trovare continuatori, ammesso che in Italia ci sia davvero qualcosa che si sta formando e che meriti di essere proseguita.

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